Due pirati valdostani alla Dakar: «Esserci è realizzare il nostro sogno»
Henry Favre e Alessandro Iacovelli sono pronti a partire per la mitica prova che ha fatto la storia del motorismo
Come una volta, e non solo per la categoria di appartenenza. Due ragazzi terribili, Henry Favre di Gressan e Alessandro Iacovelli di Charvensod, il primo (classe 1995) esperto di marketing per una nota azienda di componentistica per le due ruote, il secondo (classe 1998) meccanico nell’officina di famiglia, coronano il sogno di una vita, la partecipazione alla Dakar, anche quest’anno ospitata dall’Arabia Saudita.
Due pirati valdostani alla Dakar
I due, che si alterneranno alla guida, rappresentano il terzo equipaggio valdostano della storia, dopo i fratelli Collomb con la Fiat Campagnola nel 1984 e Picchiottino–Gomiero con la Nissan nel 2000.
La macchina, un Mitsubishi Pajero del 1990, con il quale i due affronteranno dal 3 al 17 gennaio prossimi il raid più famoso e impegnativo al mondo in una competizione di regolarità, tale è il paradigma per la categoria alla quale sono iscritti, la Classic.
Come una volta, perché correranno con la formula petardo, cioè senza assistenza in gara; al seguito solo una cassa di ricambi trasferita da bivacco a bivacco dal team toscano R-Team, un timer da cucina e un taccuino, nessun meccanico a disposizione, una tenda e due sacchi a pelo. Proprio lo spirito originario della Dakar, tutto pionierismo ed essenzialità, in una parola avventura nel deserto pervasivo e immanente, prima che arrivassero le astronavi degli ultimi lustri. Pionierismo e autentica artigianalità, con pezzi di ricambio rigenerati e provenienti da rottamai, per tacere dell’ovvio, il budget limitato.
In una parola, vivere la gara nello spirito selvaggio delle origini, per un’esperienza unica e, verrebbe quasi da dire, palingenetica.
Il Pajero sarà fatto a pezzi
Ma non basta. Il Pajero sarà successivamente – e letteralmente – fatto a pezzi, creando opere d’arte destinate ai fans che supporteranno la follia. Furia iconoclasta? Ma no, anzi. Più un atto concreto di ribellione verso il mondo del collezionismo, ritenuto appannaggio di ricchi e inaccessibile agli altri, soprattutto ai giovani appassionati. Segnatevi il nome, La Cafona e il numero 751: sono i codici identificativi del Pajero di Favre–Iacovelli.
Cafona, che, ci sentiamo di affermare, non riporta al significato usuale: ignorante sì, ma nel senso di estremo, primordiale, di impresa di altri tempi, se vogliamo di gusto e di sfida dell’imprevisto. Qualche dato squisitamente tecnico: 2 chilometri al litro, 150 chilometri orari di velocità massima, 180 litri di serbatoio di carburante, 1.700 chilogrammi di peso. E circa 80.000 euro di budget, supportato da brand di rilevo a carattere internazionale, da aziende valdostane vendita di veicoli che hanno testimoniato negli anni le avventure di Henry. Non manca che una vissuta bandana, ed ecco i pirati del terzo millennio pronti a salpare.
Henry Favre: «Il mio terreno è la gara»
Henry, per tanti piloti la Dakar è un sogno e rimane tale, voi l’avete trasformato in realtà. Una realtà che parte da lontano.
«Mi è sempre piaciuto viaggiare. Ho fatto l’American Ciao, sono stato a Capo Nord con l’Ape. Poi ho dedicato tutto il mio tempo e tutte le mie energie al lavoro. Ero contento così, ma si sono accorto che mi mancava qualcosa di matto. Avevo già frequentato la Dakar come reporter social per una testata di rilevo nazionale, ma il mio terreno è la gara».
E, come in un film, le si sono parate davanti le sliding doors.
«Un giorno riceviamo una mail da uno sceicco arabo che ci invitava a una prova in Qatar. Ovviamente abbiamo pensato a uno scherzo o a una truffa. E invece era tutto vero. Si trattava nientemeno di una competizione internazionale valida per il campionato mondiale organizzata da Qatar Motor & Motorcycle Federation, cui partecipavano concorrenti di svariate nazionalità, alcuni dei quali disputavano la Dakar. Due giorni di gara in moto. Talmente coinvolgenti che nasce la pazzia: andiamo alla Dakar anche noi».
Henry Favre: «Abbiamo passato giorni e notti in officina»
Dal dire, però, occorreva passare al fare. Un’impresa titanica, soprattutto per i costi.
«Già. Comincio vendendo le mie moto e acquisto il Pajero pronto per gareggiare. Bellissimo, corsaiolo. Ben presto, però, noto che ci sono tanti lavori da fare. Passiamo giorni e notti da marzo a oggi in officina. Adesso la macchina è colorata e fa rumore, il rumore giusto. Chi corre la Dakar non bada a spese: noi invece ci abbiamo badato eccome. La macchina viene praticamente autocostruita, sappiamo che il budget è contenuto e che si tratta del primo paletto non da poco con cui dobbiamo confrontarci».
Scatta la caccia al risparmio.
«Per dire, recuperiamo l’abbigliamento su un sito vintage, troviamo i sedili a prezzo stracciato perché scadono poco dopo la gara. All’arrivo in Arabia provvederemo noi stessi a sdoganare la macchina e ai bivacchi ci acconteremo di una tenda e due materassi, mentre i big saranno in albergo. Come ricambi, quattro ruote di scorta, qualche attrezzo, una saldatrice, un timer da cucina, il dispositivo di navigazione Tripy, ma esclusivamente per i trasferimenti, non in prova. Non avremo assistenza, ci avvarremo della preziosissima collaborazione di R-Team, espressione di Ralliart. Potremo utilizzare compressore e faretti, ma solo al bivacco. Durante le speciali saremo soli, un’avventura al limite della sopravvivenza. Strumentazione spartana e bisogno di tanta fortuna».
Henry Favre: «Per completare i fondi ho sfruttato la mia vena artistica»
Come avete formato il budget?
«Il costo complessivo si aggira sugli 80mila euro. Ci hanno aiutato aziende locali come, ad esempio, Alpimetal con denaro e materiali, Quendoz con il carro attrezzi 4×4 per il trasferimento della macchina, Officina Emmepi per sconti sui ricambi e altro. Per completare i fondi, ho sfruttato la mia vena artistica. Taglierò a pezzi la macchina – postando un video – e ne farò delle opere d’arte, oggetti da collezione che consentiranno di vivere la Dakar anche a chi, per motivi di tempo o economici, non può frequentarla. Sono convinto che un’iniziativa così creerà una eco mediatica riguardo alla nostra avventura anche successivamente alla gara».
Il mito della Dakar affrontato secondo lo spirito delle origini: commendevole, anche se sono passati oltre quarant’anni.
«Ci avviciniamo molto umilmente, consapevoli che ci è stata riservata una grande opportunità, che tocca a pochi. Realizziamo il nostro sogno soltanto a esserci. Il superamento delle verifiche tecniche è già in sé una fortissima emozione. Non guardiamo alla classifica, procederemo un giorno dopo l’altro. Comunque, tengo a dire che rispetto alle origini, sono cambiate tante cose. La sicurezza, innanzitutto, garantita da una quindicina di elicotteri, che monitorano il percorso dal punto di vista medico e logistico, e il collegamento di ogni vettura con la centrale di Parigi per ogni evenienza».
Henry Favre: «Fatto tanta pratica sulla pista ghiacciata di Crévacol»
Potete contare su qualche esperienza prodromica?
«La farò ridere, forse. Un paio di test in Marocco sulle dune, ma soprattutto tanta pratica di guida sulla pista ghiacciata di Crévacol».
Sarete impegnati nella categoria Classic.
«È la categoria delle macchine Agées, circa centoquaranta. La nostra classe è la H1. Le prove andranno affrontate a una media di 50 chilometri orari. Sembra un’andatura lenta, ma non è così: occorre tenere conto delle dune, degli imprevisti. Per gli appassionati, racconteremo la nostra gara sui social».
La Dakar inizia subito col botto.
«Con tappe ad anello. La seconda sarà subito assai impegnativa: 1.000 chilometri, come da Aosta a Napoli, ma con un fuoristrada su sterrato. A rappresentare bene la Dakar, è l’evoluzione, giorno dopo giorno, del villaggio dedicato ai servizi. Alla partenza, è un padiglione gigante, pieno di comfort, per accogliere circa 13.000 persone. Poi, per ritiri e abbandoni vari, si riduce sempre di più, fino a diventare un gazebo. E noi, quel gazebo, sogniamo di vederlo».
(Enrico Formento Dojot)