La svolta genitoriale
Rubrica a cura della psicoterapeuta Rossana Raso
(rubrica a cura della psicoterapeuta Rossana Raso)
Che responsabilità essere genitori. Quanti timori porta con sé, attese, aspettative, arrabbiature, fatiche, preoccupazioni. Senza tralasciare le grandi gioie, le soddisfazioni, l’affetto.
È un’avventura complessa, ricca, difficile e allo stesso tempo meravigliosa. Questa estrema complessità deriva sia dalla responsabilità di proteggere che da quella di accompagnare ed insegnare, unita alla volontà di far bene, di non far mancare nulla, di passare norme e regole giuste.
Insomma, occuparsi della salute, dell’incolumità, del benessere, dell’affettività, della serenità, dell’apprendimento, del sostentamento, della regolazione e della supervisione di una piccola vita in via di sviluppo. Un compito enorme. Da qui tutte le conseguenze immaginabili in termini di preoccupazione, giudizio sul proprio operato e ricadute fisiche ed emotive. Capita però, in tutto ciò e proprio in virtù del mandato che sentiamo sulle spalle, di dimenticare a volte un dettaglio fondamentale.
Il fatto che di fronte a noi non stia una nostra proprietà, una nostra propaggine, ma una personcina separata ed unicamente caratterizzata, con propri bisogni, aspettative, gusti, volontà, sentimenti. E credo che in termini di genitorialità sia un punto importante avere ben presente questa consapevolezza. Ci sono molti genitori che l’hanno già ben chiara, altri che approdano ad essa con una vera e propria svolta ed altri ancora che non l’hanno ancora raggiunta. Certo, non consideriamo coscientemente i nostri figli una cosa o una mera proprietà, salvo casi particolari e problematici.
Ciò che desideriamo è il loro bene. Ma quel MIO/MIA che inevitabilmente traspare nel parlato è sottile e ci porta a sottovalutare alcune questioni. Prendiamo, in relazione a questo, il tema “capricci”. Cosa sono in concreto? Identifichiamo spesso questo termine con un comportamento ai nostri occhi esagerato, esplosivo che si pone contro una nostra regola e/o non conforme alle nostre attese o alla norma. Questo, se più o meno inconsapevolmente consideriamo “di nostra proprietà” l’autore della reazione osteggiata, può agire su di noi in termini di affronto, di sfida sul personale, di perdita del “dominio”.
Se invece riusciamo ad entrare nell’ottica di chi abbiamo di fronte in quanto altro da me, separato ed autonomo, possiamo accedere ad una dimensione di comprensione maggiore. Può risultare meno arduo mettersi nei suoi panni. Ora, l’emotività e le reazioni infantili possono essere accese, in quanto non ancora in grado di gestirle, contenerle e regolarsi. Tutti apprendimenti che siamo noi a doverli aiutare a raggiungere.
La parte oppositiva in sé invece, esprime un tentativo di scelta, un porre sul tavolo la propria volontà in formazione. Come a dire «sto crescendo, mi accorgo di avere maggiori capacità e competenze, quindi sento di poter scegliere, decidere, fare più da me».
È un po’ come se noi stessi ci trovassimo in una situazione in cui vogliamo o non vogliamo assolutamente fare qualcosa e ci sentissimo competenti ed in grado di poter decidere. Non proveremmo in qualche modo a sostenerlo questo proposito? Attenzione, non sto assolutamente dicendo che allora debba essere concesso tutto o essere permesso di fare tutto ciò che passi loro per la testa. Ho parlato infatti più volte dell’importanza dei no, delle regole e dei confini. Sono fondamentali, ma nell’ottica di aiutarli a non essere totalmente preda dell’istinto, di imparare a gestire la frustrazione, di non mettersi e non mettere in pericolo, di interiorizzare un comportamento sociale rispettoso e civile, di prepararli al perseguimento dei propri obiettivi e desideri sì, ma nell’osservanza del ragionevole, del lecito e del salutare. Questo però è molto diverso rispetto al sentirsi oltraggiati da quello che leggiamo come un attacco a noi e alla nostra autorità, dalla discrepanza di visioni che ci porta a voler imporre la nostra, dal concetto di comando perché «sei mio\a figlio/a e decido io».
Entrare profondamente in contatto con “la separatezza” può permettere di vivere diversamente difficoltà ed intoppi, non caricandoli con rabbie superflue, motivazioni distorte e profonde incomprensioni. Per capirsi vicendevolmente è importante vedersi distinti e sentirsi non possessori della vita che ci sta di fronte, ma accompagnatori della stessa nella strada verso la crescita.
Mia/o figlia/o non sono io ed è importante riuscire a distinguere per vivere più serenamente un compito già di per sé arduo e per permettere loro una crescita libera da eccessive ingerenze. Questo discorso si lega infatti anche al rischio di vedere i nostri figli come possibilità o veicolo di realizzazione personale riflesso. Trappola schiacciante per loro in quanto li lega ed indirizza verso percorsi e scelte più o meno esplicitamente pilotati ed illusione foriera di delusione per chi più o meno inconsapevolmente li vive come nuova occasione data dalla convinzione del possesso.
La svolta riguardante la separatezza, se non presente fin dall’inizio, sopraggiunge solitamente in preadolescenza/adolescenza, quando le spinte di autonomizzazione dei nostri figli si fanno evidenti e spesso segnate dal vero e proprio allontanamento, dalla “ribellione”, dalla distanza fisica. È solitamente in quel periodo che si inizia a capire di essere stati un tramite di consegna di un individuo al mondo, perché lì è più evidente il nostro doverli lasciare andare (pur rimanendo presenti, disponibili ed attenti). In questi termini, si tratta spesso di una svolta anche dolorosa per i genitori che dovranno piano piano tararsi sulla nuova consapevolezza e rinunciare alla volontà e al bisogno di rappresentare tutto il mondo per i propri figli, come invece pareva in infanzia.
Se però la separatezza fosse un’acquisizione raggiunta precedentemente, il processo di crescita potrebbe giovarne, così come l’identità genitoriale ed il peso delle conseguenti implicazioni.
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